nikkino80dc
Membro Attivo
Qualche anno fa sottoscrissi in qualità di promissario acquirente e presso agenzia immobiliare, un preliminare di compravendita per l' acquisto in contanti di un appartamento. Non ho mai incontrato i venditori ma, stante l' urgenza di rogitare, corrisposi un cospicuo assegno di caparra proprio per evitare che i venditori potessero venir meno all'impegno. Nel preliminare prestampato, era specificato che, al giorno del rogito l' immobile dovesse essere consegnato libero da persone e cose, vincoli, pesi onoeri reali, ipoteche e PIGNORAMENTI. A poche ore dal rogito l' agenzia mi contatta informandomi del fatto che il rogito non era proseguibile per quella data a causa della scoperta da parte del notaio di formalità pregiudizievoli. A quel punto, non intendendo imbarcarmi in una avventura verso l'ignoto, temendo l'entità dei pignoramenti e soprattutto avendo perso fiducia nei venditori, mi sono recato immediatamente da un avvocato per chiedergli di svincolarmi dal contratto. L' avvocato esercitò il diritto di recesso ai sensi dell' art. 1385 intimando la restituzione del doppio della caparra. I promissari venditori rifiutarono di subire il mio recesso e di trincerarono nel silenzio. Al che, in mancanza della restituzione del maltolto, mi rivolsi ad un altro avvocato di fiducia il quale notificava citazione in giudizio tanto ai promissari venditori che all' agenzia immobiliare. I venditori reagirono con domanda riconvenzionale richiedendo di trattenere la caparra a fronte del mio rifiuto di stipulare il rogito. L' agenzia, d'altro canto, mi richiedeva il pagamento delle provvigioni. Il giudizio di primo grado si concludeva con la mia condanna alla perdita della caparra, ma veniva condannata l' immobiliare per un terzo del valore della stessa a fronte della "violazione dell' obbligo di informazione". L' agenzia accettò di pagare (e non dichiarare fallimento per poi risorgere sotto altra insegna) ma mi impose il pagamento rateizzato con assegni in deposito fodiciario presso studio del mio avvocato. Dopo aver pagato quindicimila euro di spese legali e giudiziarie oltre ad aver perso l' assegno di caparra di pari importo decisi di interporre appello. Qualora dovessi perdere anche l' appello potrei andare sotto di ulteriori venticinquemila euro per un totale perdite di circa sessantamila euro tra danni, interessi e rovina economica. Il dettaglio non di poco conto sta nei documenti prodotti in giudizio dai convenuti. I debiti erano stati pagati e le procedure pendenti presso il Tribunale delle Esecuzioni erano in dirittura di arrivo in quanto le banche creditrici avevano dato assenso alle cancellazioni delle pregiudizievoli. Di tanto non ero stato informato e persino l' agenzia era all'oscuro di ciò. I miei avvocati non intendono riconoscere la propria responsabilità nell' accaduto malgrado nessuno dei due abbia compiuto una indagine seria sulla natura dei pignoramenti, né richiesto lumi alle controparti. Vi chiedo,quel fatidico giorno voi che avreste fatto? Avreste mai immaginato che anche gli avvocati possano essere indotti a ritenere legittimo l' esercizio del diritto di recesso ex 1585 dinanzi alla scoperta di sottaciuti pignoramenti (anche solo in fase di cancellazione) malgrado la clausola che fissi la data del rogito con l' espressione "entro il" pur non prevedendo la clausola del termine essenziale e della clausola risolutiva espressa in caso di violazione del contratto da parte dei promissari venditori?? Chi, perché e in quale fase ha realmente commesso un errore?