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Svolta del partito consumista cinese
"Compagni, consumare è glorioso"

La Repubblica popolare vara il nuovo piano quinquennale in cui l'imperativo è: felicità e benessere. Ovvero, spendere. Basta nascondere i soldi sotto il materasso, è venuto il momento di fare acquisti

PECHINO - Compagni, consumare è glorioso. Trent'anni dopo l'ordine di arricchirsi, impartito da Deng Xiaoping dopo la morte di Mao Zedong, la Cina del post-comunismo di mercato si prepara ad assolvere un obbligo nuovo: spendere. I compagni non esistono più e l'appellativo è stato appena abolito anche nella vita pubblica.

I soldi però restano, e in Oriente sono sempre di più: la rivoluzione di Hu Jintao e Wen Jiabao, che tra un anno scenderanno dal trono della Città Proibita, punta a spostarli dalle casse dello Stato a quelle delle famiglie, dal partito all'individuo. I cinesi escono dai capannoni ed entrano negli shopping center. La nazione che sta trainando la fragile ripresa dell'economia mondiale, inaugura un'era nuova: quella in cui i consumi interni dovranno sostituire le esportazioni. Per il pianeta è uno spartiacque e i mercati, assieme alle cancellerie internazionali, seguono con il fiato sospeso i lavori della Conferenza politica consultiva del popolo e dell'Assemblea nazionale del popolo, chiamate a varare il dodicesimo piano quinquennale della repubblica popolare cinese. Significa decidere come usare un terzo della ricchezza globale, un quarto delle risorse naturali della terra e un sesto dei destini dell'umanità.

E anche oggi, archiviata la stagione "dell'armonia", l'ordine del potere è chiaro: xingfu, ossia felicità e benessere. I più anziani ricordano che è lo stesso con cui il Grande Timoniere tempestava le masse negli anni
'60 del Novecento e non è un caso se, per tuffarsi ufficialmente nel futuro, Pechino si rifugia sostanzialmente nel passato. Per la leadership al potere l'obiettivo essenziale non cambia: mantenere la stabilità, che in Cina è un modo per garantire l'autorità indiscutibile del partito.

Dal 2008, inizio della crisi di un'economia occidentale degenerata nella finanza fine a se stessa, anche per la Cina, uscita rafforzata dal crac euroamericano, tutto è cambiato. I leader cinesi hanno capito che affidare la sorte nazionale agli ordini di merci degli stranieri, può segnare il capolinea della più longeva dinastia dell'Impero. Su Pechino, mai forte e decisiva come oggi, grava da mesi il senso di un'urgenza e di una precarietà, come se l'apice del successo segnasse il confine con la sconfitta di un sistema. Le autorità, scosse dallo spettro delle rivoluzioni mediterranee, si rendono conto all'improvviso che per conquistare il mondo hanno in realtà consegnato il Paese nelle sue mani, rendendosi vulnerabili dall'esterno. Strade, aeroporti, treni-missile e grattacieli, frutto dello schiavismo praticato in fabbrica per sostenere l'export, non bastano più. L'uscita dalla crisi, per il resto del mondo, sarà lenta e se l'Occidente non acquista più, tocca all'Oriente trasformarsi nel "Cliente Unico" per tutti.

Alla vigilia della svolta, che dovrà convincere 1,34 miliardi di persone a non nascondere più i soldi sotto il materasso, ma a investirli in quelle che fino a ieri erano definite "depravazioni borghesi", universalmente note come "consumi", è partito così il mantra della propaganda di Stato. La Cina ha ordinato ai suoi funzionari di smetterla di costruire viadotti e sgomberare contadini, per "dare invece gioia alla gente". Il premier Wen Jiabao ha gelato i tremila delegati del parlamento. "La valutazione dei funzionari non sarà più fatta in base al numero di edifici e di progetti, o sulla crescita del Pil delle regioni. Guarderà alla capacità di rendere felice il popolo".

E' una scossa che fa tremare le grandi lobby industriali, i blocchi di potere di regioni con un bilancio triplo rispetto a molti Paesi Ue, la pancia massimalista del partito e le stesse multinazionali della delocalizzazione. Al passo d'addio il presidente Hu Jintao, che passerà alla storia come il tecnocrate più grigio sopravvissuto al crollo del "mondo sovieticus", tenta dunque la rivoluzione capace di riscattarne la memoria.

Le colonne del piano, rese pubbliche da domani ma anticipate dalla stampa governativa, sono tre. Spostare la Cina dalle esportazioni manifatturiere a basso costo ai consumi interni generati dallo sviluppo dei servizi. Aumentare gli stipendi e abbassare le tasse sui redditi medi e bassi. Creare una rete di welfare, a partire da sanità pubblica e previdenza, che consenta alla popolazione di non risparmiare tutta la vita per scongiurare di morire nell'abbandono.

Pechino vive nell'incubo di una rivolta online innescata dall'Occidente e per scongiurarla adotta il profilo del capitalismo che ha combattuto per 62 anni. Le caratteristiche però, come sempre, saranno cinesi. "La nostra missione - ha spiegato Hu Jintao alla scuola centrale del partito - è costruire un sistema di gestione socialista per salvaguardare gli interessi e i diritti della gente, che se saranno ignorati potrebbero arrecare danno alla stabilità sociale".

A poche ore dal varo della più impressionante riforma economica del nostro tempo, destinata a cambiare il volto non solo della Cina, un sondaggio choc ha rivelato che dopo trent'anni di boom solo il 6% dei cinesi si dichiara soddisfatto. Il primo nemico da battere è l'inflazione, che secondo l'87% della popolazione continuerà a crescere anche nel 2011. Nel 2010 è salita del 3,3% e in febbraio ha raggiunto il 4,9%, rispetto al 4% dell'obiettivo 2011. I prezzi alimentari sono schizzati però del 10,3%, la frutta addirittura del 30%. I tentativi della banca centrale di raffreddare il denaro sono sostanzialmente falliti e per la prima volta il governo è stato costretto a rivedere al ribasso il target della crescita.

Nei prossimi cinque anni, per rendere sostenibile il proprio sviluppo, la Cina intende calmare l'economia e crescere ad una media del 7%, rispetto all'8% annunciato per il trascorso quinquennio. Nel 2010 il Pil cinese ha registrato in realtà un più 10,3% e la tendenza a risultati più alti delle attese non cambierà. Il messaggio però è inequivocabile: l'obiettivo dello Stato non è più fare soldi per controllare una vecchia massa proletaria, ma fornire servizi per gestire le attese di una nuova classe media. I capi del partito, nelle fasi di transizione politica e alla vigilia delle riforme economiche, non sono mai stati avari di promesse. Ciò che oggi viene prospettato ai cinesi supera però ogni precedente.

"L'ideologia della felicità" prevede, come d'incanto, lo stop all'inflazione, il taglio delle tasse ai ceti bassi e l'aumento generale degli stipendi. Nel 2011 i salari minimi aumenteranno di un altro 20%, come l'anno scorso, ma con punte del 75% nelle regioni interne. Un operaio passerà da 124 a 146 euro al mese. Nelle città la busta paga media sarà di 2 mila euro all'anno, rispetto ai 600 euro guadagnati nelle zone rurali.

Domani Wen Jiabao annuncerà che le disparità crescenti tra miliardari e miserabili, fonte irreprimibile della rabbia popolare, saranno colmate, come il divario tra metropoli e villaggi, tra costa industriale e interno medievale. Con la lotta alla corruzione pubblica, che sta demolendo il rispetto verso il partito, la grande scommessa cinese è però su assistenza, casa, lavoro, ambiente, agricoltura e istruzione. In cinque anni il peso della sanità a carico del privato scenderà dal 40 al 30%, le pensioni saranno agganciate all'inflazione, diventerà reato non pagare i dipendenti e contadini beneficeranno di contributi inediti per la modernizzazione delle colture.

Per spegnere il rischio di una "bolla immobiliare", inizio della fine trent'anni fa in Giappone, lo Stato non si limiterà a frenare il credito: nel 2011 consegnerà 10 milioni di alloggi popolari, che diventeranno 36 milioni entro il 2015. Gli investimenti in energia pulita, sicurezza alimentare, e taglio delle emissioni nocive (-17% per unità di Pil entro cinque anni, -40% nel 2020) porranno la Cina al primo posto nel mondo, come quelle in hi-tech, ricerca scientifica, cultura e sviluppo delle università. Un Paese con 700 milioni di colletti bianchi ha bisogno di essere creativo e innovativo: Pechino, perseguendo il primato nella scienza, si appresta a non esportare più container di jeans, ma file carichi di brevetti.

Questo affascinante germoglio di Cina del Duemila, estremo nostro appiglio, presenta un'incognita e una controindicazione. La prima consiste nella percentuale di possibilità che le promesse si traducano in fatti. Il governo, esternamente, abusa in autoritarismo monolitico, ma al suo interno è diviso tra fazioni locali e lobby economiche contrapposte, spesso frenate dal conservatorismo nazionalista imposto dalla dipendenza dalle forze armate. Il cambiamento, se risulterà possibile, si rivelerà più lento e difficile di quanto annunciato. Il limite di una Cina costretta a spendere è invece la riduzione dello squilibrio commerciale con l'estero. Regalerà una boccata d'ossigeno ai cambi, sebbene Wen Jiabao abbia confermato che la rivalutazione dello yuan procederà con il freno tirato, ma taglierà i fondi cinesi da investire per salvare i deficit dell'Occidente, a partire da Stati Uniti e Unione europea.

Gli eredi di Mao distribuiscono denaro per seminare l'obbligo della spesa e l'incubo dei debiti, antidoto estremo contro l'alba del dissenso interno e il tramonto dei nemici esterni. Rinunciano però, ancora una volta, a donare ai cinesi dignità, diritti e libertà. E sulla sconnessione tra acquisto e partecipazione che può naufragare l'esperimento secolare del "compagno consumista". Se così sarà, non vedremo cadere solo l'ultima dinastia dell'ultimo Impero.

Svolta del partito consumista cinese "Compagni, consumare è glorioso" - Repubblica.it
 

ada1

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Anche se sui media occidentali se ne parla raramente, il regime politico cinese e la struttura del partito comunista cinese sono contestati da moltissimi cinesi in varie parti del paese, e moltissime manifestazioni spontanee -represse duramente- hanno luogo constantemente in Cina. E quello di cui si parla di tanto in tanto (tafferugli per il Tibet, messa in carcere di qualche attivista dei diritti umani, che non possono essere nascosti) è solo la punta dell'iceberg di cui le autorità cinesi sembrano oggi prendere timidamente atto dopo gli ultimi avvenimenti nei paesi arabi.
Questo pero' -a mio modesto avviso- non deve farci credere che tutto cambierà in Cina : concedere qualcosa di tanto in tanto non significa che molto cambierà per i cinesi di base perché sono sicura che il partito cinese "veglierà" a che i suoi sudditi non si credano tutto permesso.
Ma c'è un altro punto di cui l'articolo non parla e di cui dei giornali (ma non tutti), all'estero, hanno già fatto parte e cioé :
i ministeri cinesi delle Finanze e delle Scienze e Tecnologie + la Commissione Nazionale Cinese per le Riforme e lo Sviluppo hanno emanato a novembre 2009 una direttiva per l'attribuzione dei mercati pubblici per quanto riguarda dei settori tecnologici di alta qualità (quali, ad esempio, : informatica, comunicazione, nuove energie, efficacità energetica ).
Fin qui tutto bene se non che la direttiva stabiliva che questi prodotti -se vogliono essere accreditati in Cina- devono avere una proprietà intellettuale cinese ed la marca dovrà essere di origine cinese (="dovranno essere indipendeti da organizzazioni o privati stranieri"), cioé in pratica si dice alle società straniere (che hanno segreti professionali di produzione in salvaguardia della loro proprietà industriale) in quei settori presi in conto che esse non potranno partecipare ai mercati pubblici cinesi (essi rappresentavano nel 2009 ca 60 miliardi di euro); quindi tali mercati resteranno aperti solo alle imprese cinesi con il rischio di vedere esteso questo sistema ad altri settori economici in sviluppo.
Cosi' le imprese che in questi anni hanno delocalizzato attratti dal mitico mercato cinese rischiano di essere presi dal loro stesso giuoco e ritrovarsi senza sbocchi in Cina e senza il mercato tradizionale e mi stupirebbe che la Cina prenda in conto le proteste straniere ( americane, giapponesi , sud coreane e europee) : come al solito la reazione sarà "parlate pure, a casa mia faccio quello che mi pare e se voi volete continuare a vendere in Cina, anche voi finirete col fare quello che voglio io".
Non so' se le proteste hanno avuto un qualunque effetto per modificare in tutto o in parte questa direttiva ma a giudicare dalle reazioni ufficiali durante le visite all'estero su temi economici non credo che ci siano state avanzate, almeno io non ho trovato granché
 

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